– Un esempio di come si scrive, gira e recita un film –
Dite quello che volete. Che sono prevenuto, che sono anticonformista, che sono reazionario. Ma ho messo in fila quasi i principali candidati a miglior film, e finora il bilancio è stato tutt’altro che clemente. La forma dell’acqua è il classico esempio di film bello ma mediocre, Lady Bird era l’avventura indie che non avrebbe mai vinto – Juno 2.0 – Dunkirk era un capolavoro wagneriano più che cinematografico – troppo bello per vincere, stile La Sottile Linea Rossa, e Il Filo Nascosto un film assolutamente inutile e sopravvalutato. L’ultima speranza, L’Ora più Buia, l’ho già descritto come un one-man-show di Gary Oldman.
Io invece dico che, molto semplicemente, so fare pronostici riguardo ai film. Ragion per cui, quando ho scoperto un film con Frances MacDormand, Woody Harrelson e Sam Rockwell che parlava di una madre che, privata della figlia, non si arrende alla negligenza dei poliziotti di paese… Avevo un feeling che sarebbe stato un film coi contro. E quindi era d’obbligo schedularne la visione.
Facciamo una premessa – ecchepalle, le premesse focacCinematiche. Ma tant’è. La premessa è questa: gli Oscar 2018 hanno messo in risalto i derelitti: l’afroamericano in Scappa, il politico outsider ne L’ora più buia, i soldati privi di dignità di Dunkirk: i derelitti sociali in Lady Bird, La Forma dell’Acqua e un’altra pellicola spettacolare, Un sogno chiamato Florida, che ha fruttato a Daniel Dafoe la nomination come attore non protagonista. Ugualmente, Tre Manifesti racconta un’America brutta, povera e spaccona, un po’ quella che vota Trump, viene da pensare; dei poliziotti alcolizzati e delle famiglie spezzate della working class; dei borghi di provincia che cadono a pezzi, fatti fuori dalle autostrade e dai grandi centri.
In questa cornice grottesca, Martin McDonagh (In Bruges) riesce a raccontarci una storia di lotta, di persistenza di tutti contro tutto e contro tutti. Se la recitazione di Frances è immensa – e la parte le sembra cucita addosso – l’idea di contrapporle un capo della polizia – Woody Harrelson – malato terminale e la sua spalla – un Sam Rockwell monumentale – con tutti i problemi del mondo (alcolismo edipico, violenza innata, improvvisa voglia di redenzione), pagano alla grande, facendo davvero valere il biglietto.
Senza voler rovinare il finale a chi non l’ha visto, il merito forse più grande di Tre manifesti a Ebbing, Missouri è però quello di un finale amarognolo, incerto come solo la vita vera e derelitta può essere: l’assenza di colpi di scena lo tiene lontano dall’abusatissimo genere sentimental-poliziesco, i toni cupi e la comicità tagliente e inattesa come una risma di carta calda fanno sempre sperare, per poi deludere tutti – o quasi – i nostri barlumi di speranza di giustizia. Resta spazio per la redenzione e per il perdono. O no? Nel caso del personaggio di Sam Rockwell, assolutamente sì. Nel caso di Harrelson, boh. La madre avrà le sue risposte? Sì, no, chissà? Un epilogo che lascia migliaia di interrogativi aperti. Un Inception del Midwest, senza le pappardelle oniriche – anzi, molto, anche troppo realistiche.
Tirando le somme: Se volete una scontatissima storia d’amore favolesca tra una muta e un pesce, guardate La Forma dell’Acqua, magari con una migliore amica ingozzandovi di cioccolato (sì, è un po’ sessista come suggerimento, ma vi sfido a trovarmi un maschietto che abbia davvero voglia di guardarlo); se volete un film inutile, narcisistico e sborone – e recitato alla meno peggio, visto cosa ci si aspetta dal babypensionato Daniel – guardatevi Il Filo Nascosto; ma se volete un film come Dio comanda, Tre Manifesti a Ebbing, Missouri è il film che fa per voi.
Lo ripeterò alla noia: standing ovation per Sam Rockwell. Uno dei miei attori preferiti in una parte che entrerà nella storia del cinema.
Chapeau.