La satira travestita da demenza di un genio incompreso del cinema italiano
Si potrebbe non scommettere un soldo bucato sul successo di Omicidio all’Italiana, visto anche il risultato non proprio idilliaco di Italiano Medio al botteghino: e infatti la prima cosa che la mia Signora nota è la sala vuota, domenica alle 20:15. Che dire? Me l’aspettavo pure io, non me ne vogliano Maccio, Herbert e Ivo. Ma tant’è.
Chi come me conosce l’epopea televisiva della fellowship di Marcello Macchia, in arte Maccio Capatonda, comprende meglio la comicità del videomaker teatino, cresciuto rompendo le palle ai suoi concittadini con una telecamera e tanta voglia di fare (lo scemo), maturato tra All Music e la Gialappa’s, consacratosi infine con Lo Zoo di 105 – che forse è tra le cose che di lui fan meno ridere. Fatto sta che Maccio & C. praticano una satira travestita da demenzialità… anzi, no, che dico, da demenza vera e propria, a tal punto che, con chiunque mi capiti di parlare, mi sento dire: (immaginatevi una voce boriosa e un po’ imbecille): “Non mi piaaace Maccio Capatonda, non faaaa ridere”.
Proprio come in Italiano Medio, però, questo film riesce benissimo nell’intento di criticare ferocemente lo stereotipo dell’italiota reduce da rincoglionimento televisivo perenne. Prendendo spunto da uno dei pilastri del teletrash nostrano – la morbosa sete di cronaca nera – Omicidio all’Italiana sposta un po’ più in là la critica, seppur involontaria, alla mediocrità del cittadino tipo: assetato di sensazioni sintetiche, passeggere, morbose; da quella voglia di omologazione attraverso la ritualità dell’Io c’ero (o dell’ “Io ho visto tutto”, per citare il “passante di professione” Pino Cammino interpretato da Herbert Ballerina in Mario).
Il paesino di Acitrullo, rudere diroccato nel Molise profondo, si ridesta a nuova vita quando al sindaco Piero Peluria (Capatonda) viene la grande idea di usare il cadavere della vecchia contessa, morta soffocata, per inscenare un omicidio efferato: così da far balzare il paese ai bagliori della cronaca, alla pari delle “grandi capitali europee: Avetrana, Cogne, Novi Ligure”. Presto detto e presto fatto, l’arrivo in paese della troupe di Chi l’Acciso, capitanati dalla pragmatica, ammiccante Donatella Spruzzone (Sabrina Ferilli) scatena il turismo dell’orrore, ridà linfa all’economia; attira orde di giornalisti affamati di scoop e giovani, famiglie, affaristi, asiatici dall’accento lumbard, tutti ansiosi di farsi un selfie sul luogo del delitto. In questo quadro, tutti fanno i conti con le ambizioni qualcun altro: la brava agente di polizia con il commissario assetato di successo, il sindaco con la voglia del fratello (scemo) di andare a Campobasso; infine, la scoperta che non è tutto oro quel che luccica, con i cambiamenti del paese che non sono proprio come ci si aspettava.
Se la trama è facilmente – diciamo così – indovinabile, il film comunque non ne risulta esattamente scontato. La comicità del duo Maccio-Herbert si mantiene fresca e innovativa, nonostante consista perlopiù dei soliti espedienti: mispronouncing, giochi di parole, fraintendimenti dovuti soprattutto alla scemenza dei personaggi, e altri marchi di fabbrica di Maccio come il far recitare vecchietti che assolutamente non sanno recitare, affidando loro parti improbabili ai confini del plausibile. Ne risulta un film frizzante, moderno nell’obsolescenza degli scenari paesani, e un epilogo, quello sì, degno di Hitchcock (o di una puntata di Scooby Doo? Ai posteri la risposta!).
Quindi, vergogna Italia per quella sala vuota! Maccio Capatonda merita più attenzione (e Zalone un po’ meno). Dopo Italiano Medio, Omicidio all’Italiana ne è una piacevole conferma.
Un po’ lunghino talvolta, unica pecca, ed è un peccato non ritrovare la compianta Katrin J. Junior nel cast. Ma davvero, andateci finché siete in tempo.